Don Luigi Verdi

Don Luigi Verdi

Tratto da “La realtà sa di pane”, raccolta di sagge e intense riflessioni di don Luigi Verdi: parla di crisi, trasformazione e rinascita.

Ho sulla pelle i segni di ogni mia crisi e so bene quanto sia lunga e quanto, come una paura incantata, mi avvolga. Arduo capire che in quella paura a volte si realizza l’incanto e che è nella profondità della notte che si accende la luce. Se vogliamo vedere al di là della notte non possiamo provare a misurarla, possiamo solo penetrarla con la speranza e rimanere disponibili all’idea che nessuna notte sia solo notte, ma che sia anche altro. Quando sei in crisi tutto sembra contraddire questa visione e ti rimane solo l’estremo coraggio di portare la tua mente, il tuo corpo, la tua anima a sperare contro ogni speranza. Ho sempre ritenuto ogni crisi non una rovina, ma un’occasione. Ma lo è solo se restiamo fedeli e aperti, se rimaniamo, nonostante la durezza della prova, terra che sogna, sapendo che sorgerà prima o poi in noi la luce di una risposta alla nostra ombra.Solo una terra ben lavorata può diventare terra propizia, ci dicono i contadini. Per questo paradossalmente un tempo di difficoltà e sconvolgimenti può rivelarsi come il tempo più adatto a una nuova nascita: ogni parto è preceduto dalle doglie, ogni nuova illuminazione o crescita sconta la propria stagione all’inferno, ogni passaggio di iniziazione è scandito dal ritmo di notti oscure. E mi piace pensare che ogni crisi abbia l’effetto dei sassi di Pollicino che, nel folto del bosco, riescono sempre a indicare la strada. Ogni crisi ci permette allora di elevarci al di sopra della superficie del mondo, per scorgere le cime inviolate che la nebbia nasconde a coloro che vivono nella pianura. Davanti a me hai aperto un varco” (Salmo 31,9).Viene un giorno in cui, dentro la tua penombra o nel tuo labirinto, si apre un varco inaspettato che ti indica il senso dentro il non senso. Nel profondo della notte, nel buio della crisi, c’è sempre una luce verso cui andiamo, o che viene verso di noi.

Partiamo dalle mani e dagli occhi. «La crisi è sempre vista come un problema e invece è un’opportunità»: don Luigi, 45 anni, inizia così il racconto della svolta che lo ha condotto a Romena.
Famiglia semplice, «mio padre era spazzino, mamma casalinga», primo di cinque fratelli, vocazione a vent’anni, improvvisa. «Non ero esattamente un tipo casa e chiesa. Ero il più giovane distributore de L’Unità, ad Arezzo. Poi conobbi un sacerdote molto legato a figure “toste”, profetiche… padre Vannucci, don Milani… Mi piacque e una notte di Natale decisi che volevo fare il prete».
Al settimo anno di parrocchia, a Pratovecchio, diocesi di Fiesole, arriva la crisi. Luigi va dal suo vescovo e chiede di essere lasciato libero per un anno. «Fu grande, capì che avevo bisogno di rientrare in me, ma seguendo la mia strada». I primi tre mesi sabbatici li trascorre lavorando di notte in un bar di Monterchi, «tra camionisti e puttane». Poi altri tre mesi tra i campesinos della Bolivia, zaino in spalla. E infine nel deserto, alla scuola di Charles de Foucauld.
«Quando tornai dissi al vescovo che continuavo a fare il prete, lì, senza scappare, ma per qualcosa che sentivo mia, l’idea è mettere a frutto quell’anno passato alla scuola della strada, dove aveva imparato tre cose: dovevo togliere la maschera, farmi vedere come ero; vincere la timidezza, guardare la gente negli occhi; non nascondere più la mia debolezza, ma costruirci su».
Mostra le mani e la caviglia: ci sono volute sette operazioni per porre rimedio ai danni di un medicinale sbagliato assunto dalla mamma durante la gravidanza: «Quando sono nato, le dita delle mani e quel le dei piedi erano appiccicate. Le ho nascoste per anni. Poi ho capito quella parola di Gesù: la pietra scartata è diventata testata d’angolo… lì dovevo costruire».
L’antica pieve romanica, poco fuori Pratovecchio, con la benedizione del vescovo diventa un laboratorio di accoglienza. Sul canovaccio della sua crisi, «che è quella del figliol prodigo», Gigi – come lo chiamano gli amici – costruisce il primo corso: un’esperienza di conoscenza di sé e di semplificazione per arrivare all’osso, individuare i “nodi” su cui lavorare. «Ognuno ha due-tre problemi di base, il resto sono alibi per nascondere quelli veri», dice il prete. All’inizio rispondono gli amici più stretti, poi c’è il passa parola. Dopo dodici anni, il libro-presenze conta quasi seimila nomi per questo primo corso dal taglio umanistico-psicologico.
Sono le parole di Rumi, il grande mistico sufi, ad accogliere l’ospite di turno: «Vieni, chiunque tu sia. Sognatore, devoto, vagabondo, poco importa. Vieni anche se hai infranto i tuoi voti mille volte. Vieni, vieni, nonostante tutto, vieni». In questi anni, le tre navate d’arenaria ruvida e severa della pieve hanno ospitato un’umanità varia. Industriali e prostitute, ragazzi marginali, coppie in difficoltà, preti e religiosi in crisi, famiglie colpite dal lutto di un figlio. La vocazione è scritta nella pietra, scolpita nel primo capitello a destra: «Alberico plebanus fecit hanc opram, tempore famis MCLII»: la pieve è nata per la gente in tempo di carestia. «Su quel capitello io leggo la mia storia, ma anche il senso più vero della parola crisi: opportunità di cambiamento».
È l’oro nelle ferite. È quel metallo prezioso che Gigi, alla scuola di Giosuè l’orafo svizzero diventato pastore, eremita tra i boschi del Casentino, amico della Fraternità, lavora nelle cicatrici del legno, nei solchi della pietra, nelle incrinature del ferro. Costruendo icone e sculture da materiali poveri. Nel suo laboratorio Gigi crea oggetti che dicono Dio in maniera originale, la sua. È la proposta che chiude il II corso, in cui «si cerca Dio senza parlare di Lui».
Ogni partecipante è invitato a creare la sua icona per dire dell’incontro con l’Altro. Durante i due giorni il silenzio, i gesti, le emozioni, sono le vie per aiutare «l’innamoramento». La strada del pane, che ripercorre i segni dell’ultima cena; quella del tè, che prende dalla tradizione giapponese la riscoperta della sacralità di ogni piccolo gesto, dello straordinario nell’ordinario. E quindi la via di Francesco, la veglia notturna di preghiera. «È un cammino laico, perché qui c’è gente di tutti i tipi, persone che non si sono mai avvicinate a una chiesa», chiarisce don Verdi. Perciò quando deve collocare la sua esperienza nel panorama ecclesiale, Gigi la definisce «un avamposto che cerca di sfondare le porte della divisione tra mondo e Chiesa, per gente cosiddetta “lontana”».
Se il secondo corso si ispira alla luce che filtra nel buio, dalle bifore e dalle monofore (che secondo la legge del numero perfetto, il sette, si ripetono nell’antica pieve), il terzo corso trova spunto tra gli alberi e si chiude con l’olio, l’unzione per il servizio. Anche qui «si tratta di un’esperienza da fare, più che di cose da dire». Una passeggiata nel bosco, di notte, guidati da un cieco è una delle “prove” che aspetta i partecipanti. «Wolfgang Fasser, fisioterapista svizzero, maestro di musicoterapia, non vedente, li aiuta ad ascoltare i rumori del bosco, il vento, gli uccelli… imparano a fidarsi di un cieco».
Quest’ultimo corso è una strada per iniziare un cammino di servizio, anche in Fraternità. Da assistente ai corsi, ad animatore nella Compagnia delle arti, un gruppo che realizza gratuitamente animazione teatrale e musicale nei luoghi della sofferenza, dagli ospedali agli ospizi. Da collaboratore per la messa della domenica pomeriggio, quando si ritrovano in centinaia nella vecchia pieve; a guida per i corsi di varia natura – biblici, sulla corporeità, sulla famiglia- che si organizzano una volta all’anno e proseguono con incontri mensili. O ancora per le feste celebrate a ogni cambio di stagione, per il gusto di incontrarsi, salutarsi, ascoltare insieme un testimone o della buona musica; o per le veglie che la Fraternità tiene in giro per l’Italia, per ritrovare coloro che hanno partecipato ai corsi.
Così negli anni, intorno al primo nucleo di una dozzina di persone che compongono lo zoccolo duro della Fraternità, si è formata una comunità più ampia di collaboratori. Chi può si ritrova a Romena per pregare la mattina e la sera, ma tutto con grande libertà. La pieve è per tutti un punto di incontro, per nessuno di sosta. Lo stesso don Luigi ha scelto di vivere nella foresteria del monastero delle Camaldolesi di Pratovecchio, «l’Eucaristia che celebro ogni mattina è la mia forza». L’idea di qualcosa di più strutturato, in forma stabile, che non pochi desidererebbero, quasi spaventa il sacerdote. «Siamo in cammino. Tante cose che ieri mi sembravano impossibili poi si sono realizzate», dice Luigi.
Oggi gli stessi spazi non permetterebbero altro tipo di sistemazione: la grande casa in mattoni che affianca la pieve a malapena riesce ad accogliere la trentina di ospiti per i corsi del fine settimana. Il sogno del prete sarebbe avere dei piccoli eremi, autonomi, e mantenere in comune solo i momenti della preghiera, mattino e sera. Sarebbe una sintesi originale. Come lo è un po’ tutta Romena, che ha una sua personalità, ma con l’eco di altre esperienze: i canti e le antifone hanno il sapore della preghiera di Taizé; la cura del particolare, la ricerca del bello nella sobrietà, l’uso dei materiali naturali, del legno e della pietra sono quelli di Bose; così come la semplicità dell’approccio, la spensieratezza della vita comunitaria è tipica di Spello. Una sinfonia di motivi giocati sui due temi di fondo, l’essenzialità e il cammino, scritti nelle pietre dell’antica pieve.