Investimenti economici e morale cristiana

Investimenti economici e morale cristiana

Non cercare di arricchirsi per il fatto in sè, per non diventare idolatri: questo è uno dei messaggi presenti nell’interessante articolo di mons. Enrico Chiavacci pubblicato nell’ultimo numero della rivista di Pax Christi “Mosaico di pace”. Un articolo pieno di spunti e interrogativi molto interessanti per tutti, credenti e non credenti.Mons. Enrico Chiavacci è docente di teologia morale presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale.

La speculazione consiste essenzialmente nel trasferire parte della propria disponibilità economica da altri possibili usi a una collocazione da cui ci si attende a breve termine un profitto maggiore. E’ dunque un’allocazione di ricchezza disponibile fondata su una previsione (speculazione) e quindi sempre con un certo margine di rischio, e mirata a incrementare al massimo possibile la propria ricchezza in tempi brevi o brevissimi: istituti finanziari investono e disinvestono anche nel giro di 12 ore.
Ciò è reso possibile dalla comunicazione tramite computer e rete: oggi è possibile avere informazioni in tempo reale su possibili allocazioni di ricchezza in tutto il mondo e sulla previsione dei relativi profitti (incremento di ricchezza), ed è possibile allocare ricchezze sempre in tempo reale e cambiare poi rapidamente allocazione.
L’investimento è (o forse era fino a pochi anni or sono) una cosa diversa. Da un lato è chiaro che – dopo la prima industrializzazione – non si produce quasi nulla senza consistenti e costosi mezzi di produzione (beni capitali: cioè beni che servono solo a produrre i beni da vendere), cioè senza disponibilità di denaro che venne e viene detto capitale. Il capitale viene raccolto da privati o da istituti finanziari (banche) e viene remunerato con gli interessi, interessi che dipendono dalla capacità dell’azienda di produrre beni utili, di buona qualità e a prezzi competitivi (almeno fino a ieri, come vedremo in seguito). Dall’altro lato il privato, che guadagni più di quanto gli occorre, può ragionevolmente risparmiare in vista di bisogni futuri o di eventualità impreviste, mettendo i risparmi al riparo dai ladri o dall’inflazione, e attendendosi un ragionevole compenso – l’interesse – commisurato sia a quanto avrebbe potuto fare da solo con quel denaro, sia ai profitti dell’azienda in cui ha investito.

La superbia delle ricchezze
Nella Scrittura e nella tradizione teologico-morale cristiana è condannato severamente il peccato di usura. Spesso si è considerato l’investimento come una forma di prestito a interesse, e quindi assimilabile all’usura, ma non è vero.
L’usuraio, o altre forme più moderne ma simili, dà in prestito a chi è nel momento del bisogno, in strettezze permanenti o momentanee, e impone scadenza e saggio di interesse sfruttando la debolezza di chi chiede. Nell’investimento invece non si fa un prestito, ma si partecipa al capitale di un’impresa per partecipare poi a una proporzionata quota degli utili. Inoltre nell’investimento il controllo delle eventuali scadenze e del saggio di interesse è determinato da chi riceve il denaro, non da chi lo dà.
Ma la speculazione, come sopra descritta, è un’altra cosa ancora, e del tutto diversa. In essa uno dà denaro al solo scopo di averne di più: non partecipa se non formalmente al capitale e ai suoi rischi, ma vuole esclusivamente avere di più entro breve termine (spesso pochi giorni o anche ore). Le cose in realtà sono oggi molto più complicate, ma quanto ora detto è sufficiente per una prima riflessione teologica.
Il grande tema di morale economica nel Vangelo non è il settimo comandamento “non rubare”. Lo è invece, purtroppo, in tutti i testi di teologia morale fino a tempi postconciliari.
Il grande tema è “non cercare di arricchirsi” nel senso preciso di cercare di aver di più perché è di più. In tal caso la ricchezza e la sua ricerca sono viste come fine in sé. Per il cristiano l’unico fine in sé, da perseguire in ogni circostanza, è il Signore e il suo Regno. Ricordiamo il cap. 16 di Luca: a commento della parabola dell’amministratore infedele il Signore contrappone una ricchezza iniqua alla ricchezza “vera”, una ricchezza non vostra (altrui) alla ricchezza “vostra”: Dio solo è la ricchezza per il cristiano.
Irriso dai farisei (i potenti), Gesù risponde: “Grande davanti agli uomini, abbominevole davanti a Dio”. Parole terribili, da applicarsi senza esitazione ai grandi della terra e specialmente ai più grandi, del mondo o di un singolo Stato, ma sistematicamente ignorate dalla morale e anche spesso da gerarchie ecclesiastiche. Non è necessariamente peccato essere ricchi: è invece sempre peccato non mettere la propria ricchezza a servizio del Regno, cioè dei tanti miseri della terra. Paolo pone nei suoi diversi elenchi di peccati. per i quali si è esclusi dal regno sia l’avidità che l’avarizia (l’unico termine greco “pleonexia” può indicare tutte e due le cose a seconda del contesto); la voglia di aver di più e la voglia di tenerselo per sé escludono dunque dal regno. E nella prima lettera di Giovanni “la superbia delle ricchezze” (la traduzione CEI – la superbia della vita – è sbagliata) esclude dall’amore del Padre.
Considerare le ricchezze come bene in sé, desiderabile per se stesso, è dunque idolatria come dice Paolo nella lettera ai Colossesi a proposito della pleonexia. Speculazione (o gioco in borsa, che poi sono la stessa cosa) sono da considerarsi gravi peccati.

Proprietà e denaro
Il “non rubare”, che ha ipnotizzato tutti i manuali di morale economica, è solo un caso particolare di questo peccato, con l’aggravante del danno e della violazione di diritti socialmente riconosciuti dell’altro.
Ma si stia bene attenti: il ricco ha il dovere (di giustizia) di dare il necessario al povero, e se non lo fa (“si tamen”, dice San Tommaso) e il povero gli prende il necessario per vivere, il povero non commette furto perché quello che prende era già suo. Tale è la dottrina di San Tommaso, coerente con tutti i Padri della Chiesa e soprattutto col Vangelo.
Le ricchezze non sono mai un fine in sé, ma sono uno strumento per l’unico scopo della nostra esistenza: che venga il Regno, una comunità fatta di fraternità, di pace, di condivisione, e non di sopraffazione o disprezzo del misero.
Il diritto di proprietà come diritto naturale sacro e inviolabile, cioè come lo concepiamo noi oggi, è maturato nella teologia morale solo a partire dal XVI/XVII secolo (ed è per questo che i manuali, ignorando Vangelo, Padri e Tommaso, si ricordano solo del non rubare). Anzi per i Padri della Chiesa il rubare e il non dare (a chi ha bisogno) sono lo stesso peccato. Per Tommaso il diritto naturale di disporre dei beni terreni ha un significato generico: l’unico “dominus” di tutto il creato è solo Dio; all’uomo, in virtù della sua natura razionale che gli consente di adattare i mezzi al fine, è data una qualche partecipazione a questo dominio. Essa non riguarda perciò la proprietà di singole cose per singole persone.
Quest’ultimo diritto – il diritto di proprietà come lo si intende oggi – nasce da regole nate nella gestione della convivenza, “ex humano condictu”, ed è sempre sottoposto e finalizzato al bene della comunità (per approfondire questo tema debbo rinviare al mio Teologia Morale, ed. Cittadella, Assisi, v. 3/2, 1990, pp. 169-190).
Ma, più o meno negli stessi secoli, una nuova visione della ricchezza astratta – del denaro – è diventata dominante: dopo la prima industrializzazione la costruzione di macchinari e di impianti (si pensi all’enorme sviluppo della rete ferroviaria) richiese capitali enormi concentrati in poche mani. Divenne così accettata come ovvia l’idea che la ricchezza (denaro) non serve solo a comprare beni utili, ma serve a produrre nuova ricchezza. Questa nuova ricchezza non viene tutta spesa per nuovi acquisti: una parte sempre maggiore per chi è già ricco serve per produrre ancora nuova ricchezza, e così all’infinito.

Una vera idolatria
Attraverso meccanismi che qui è impossibile discutere, ma soprattutto ai nuovi mezzi di comunicazione, oggi il mondo della finanza è praticamente indipendente da quello della produzione.
E’ chiaro che il legame sussiste ancora: senza finanziamenti non si produce. Ma le grandi finanziarie planetarie muovono i capitali disponibili dove più gli conviene. Un tempo si investiva in imprese che producessero con qualità migliore e a prezzi concorrenziali.
Oggi le grandi finanziarie vere, quelle cioè che controllano quelle di grado inferiore e le banche, hanno davanti a sé tutto lo spettro dei possibili investimenti nel mondo, sono in mano privata e traggono il loro profitto movendo capitali sempre nel senso della massimizzazione del profitto privato che da questi movimenti sperano di ottenere. Possono perciò lasciare o far cadere una impresa anche ottima in favore di altre per motivi geopolitici (p.es. sostenere le finanze di un Paese alleato), o per deprimere l’economia di Paesi concorrenti (basta operare sulle valute: mettendo in crisi le aziende si può mettere in crisi un sistema bancario), o con mille altri scopi e modi che non è qui possibile descrivere.
Gli interessi delle finanziarie hanno oggi poco a che vedere con quelli delle imprese.
Sia dunque a livello dei singoli che a quello delle finanziarie il principio è che la ricchezza deve produrre sempre nuova ricchezza (per i privati operatori, e non per i bisogni della famiglia umana).
Ormai questo è un dogma. Ciò deve avvenire a qualunque costo: salari di fame, licenziamenti, lavoro minorile etc. senza alcun riguardo ai grandi problemi della fame e della miseria della famiglia umana. Ciò a lungo termine potrà produrre drammi sociali ed economici, ma il lungo termine interessa poco. Si tratta di una vera e propria idolatria, che deve – o dovrebbe – essere denunciata e combattuta apertamente dalle Chiese, mentre fino a ora ci si limita a denuncie generiche o a pie esortazioni ad aiutare i poveri della terra.
Io ritengo che ogni forma di speculazione o di gioco in borsa sia complicità o inavvertita cooperazione con l’idolatria, col male assoluto in radicale opposizione con l’annuncio evangelico.
Alcuni economisti, fra i più grandi del nostro tempo, stanno denunciando questo cancro insito nella vita della famiglia umana (Sen, Stieglitz, lo stesso Soros). Ma la grande comunicazione di massa, quasi interamente controllata o posseduta dalle grandi finanziarie, si guarda bene da dare il dovuto rilievo a tali ricerche. Noi in Italia lo sappiamo bene, ed è un fenomeno in sé clamoroso. Ma in realtà è solo un pallido riflesso di quanto avviene a livello planetario. Per esser davvero fedeli al Vangelo i cristiani devono avere il coraggio di schierarsi apertamente, uniti a tutti gli uomini di buona volontà con cui condividono la sofferenza della famiglia umana

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